un neurone solitario a NYC

lavori in corso
UN NEURONE SOLITARIO A New York DA SOLO
(cliccando sulle parole evidenziate troverete altre informazioni)

        Neurone Solitario non sa l’inglese o meglio ne sa veramente poco ma proprio poco quasi niente  e vi giuro che è la vera verità.
        Ma, ATTENZIONE, al nostro solitario Neurone Solitario piace New York! Piace così tanto, che dopo aver assaggiato la Big Apple l’anno scorso e aver letto libri su libri su  di essa ha deciso di andare, DA SOLO, alla scoperta di NEW YORK City.

Questi che seguono sono i frammenti di un diario, disordinato e scollegato, che il nostro non più giovane eroe ha tenuto nei giorni passati da solo, con la sola compagnia di un taccuino, un paio di macchine fotografiche( Nikon-,Olympus) un buon paio di Doc. Martin, una decina di sgrammaticate frasi in un tentennante inglese maccaronico e tanta voglia di lasciarsi stupire.


New York. 2 Aprile Duemilaundici
Appena sbarco dal Bus, che dall’aeroporto di Newark per soli 15$ mi porta a Manhattan ( Port Authority ) i miei sensi sono assaliti improvvisamente da odori, suoni, immagini, così comuni ma nel contempo alieni  che mi sento come se avessi ricevuto all’improvviso un manrovescio senza sapere il perchè.

Immediatamente la puzza mi avvolge e il mio naso, confuso e impreparato, cerca di identificare un bouquet in quella babele d’odori.
Una miscela che diventa l’odoro stesso della città vivente.
Un insieme di gas di scarico, sedimenti di smog, spazzatura avariata, salsedine mutante proveniente da un mare marrone, ormai prossimo alla morte, sporcizia atavica, umidità e odore di vecchio direttamente dalla Subway , traspirazione umanoide speziata, profumi clonati e sopratutto, cibo.

 Il cibo è ovunque, dovunque ed in ogni luogo, e i fumi dei cibi ti assalgono ad ogni angolo.

Carretti che cuociono cibi, di dubbia provenienza, su piastre consumate da milioni di grasse salsiccie gocciolanti ed elastici polli plastici, pallidi wurstel e sconosciute spezie, avvolti in spesse nubi di fumo grasso che ti si appiccica sui vestiti, tra i capelli, sulla pelle fino a che doccia non le sconfigga.
Una sequenza infinita di diners, fastfood, pizzerie con la “vera-pizza-italiana”, stracolmi di pannini e pepperroni,  immacolati sushibar  dagli ottimi mojiti, china-food take away, burger originali unici e sopratutto made in U.S.A. con propietari vietnamiti, only-salad macrobiotici per salutisti, vegan-food estremisti, restaurant per ogni voglia/cucina/tradizione ti venga in mente e poi ancora, bar old style new style, trend off, pub irlandesi o italoamericani, coffe-shop pseudo-starbucks e Starbucks originali.
Only-yogurt dai mille sapori e colori, fruttivendoli on the road, baracchini di peanuts caramellati, camioncini sonori di gelati.
Una sfilza di leccornie che ti accompagnano ovunque.
Dalla 5th. Av. a Spring St. da Time Square ad Orchard St. nelle stazioni dei treni e dentro le librerie, sano e malsano, dietetico e supercalorico, bio od OGM si susseguono senza fine, sempre o quasi ALL TIME.

Ma, NY, è anche il posto dove finzione e realtà si fondono creando magnifici luoghi scaturiti dalla fantasia, uno di questi è il Bubba Gump al 1501 Broadway
Praticamente dentro Time Square.
Servono gamberetti in tutte le salse, davvero tutte, cucinati in mille modi e al piano strada trovate il market dedicato interamente a quel capolavoro cinematografico che è Forest Gump.
Assolutamente da andarci almeno una volta e ricordatevi la mancia. Aperto dalle 11 am  alle 1 am. (gli americani usano divedere la giornata in am & pm perciò è il caso che vi abituate da subito ad assimilarlo).
I food-store e taxi  non chiudono mai, li trovi sempre a tua disposizione, basta sapere dove.

E se i primi inondano le strade di profumi e fumi a tutte le ore e in qualsiasi stagione, i secondi si muovono 24/7 incessantemente su, quelle stesse strade, sconnesse e piene di buchi, tanto che pensi di essere a Baghdad invece che in una moderna metropoli.
I Taxi, veicoli onnipresenti, icone in movimento di questa frenetica e spasmodica città, scorazzano per le strade intasate come pac-man in botta anfetaminica.
Strombazzando, sobbalzando, urlando in mille lingue diverse, litigando. (mi è capitato di trovarmi con un taxista molto nervoso che per un non precisato sgarro, ha accostato un taxi pirata che procedeva a destra e dopo aver abbassato il finestrino, del passeggero, ha vomitato un mare d’improperi verso l’autista avversario, bloccando ulteriormente il già incasinato traffico e facendo esplodere un assordante concerto di clacson e urla).
Tagliano corsie come se fossero kamikaze ubriachi nel loro ultimo giorno di vita, sgasando cattarose scoregge e ammorbando ulteriormente l’aria, non proprio pura, di gasolina ad un alto numero d’ottani.


Sgommano, lasciando strani tatuaggi plastici sull’asfalto sporco e caldo, frenando all’improvviso e si fermano di colpo per sCaricare, ma senza accostare, in mezzo alla strada, bloccando il traffico.
(viaggiare in taxi a Ny é una vera esperienza, ci vogliono nervi saldi e stomaci di ferro).

Un traffico che in ogni modo e nonostante tutto procede inarrestabile o quasi, come mercurio lasciato colare in un labirinto, una compatta massa di plastica, lamiera, musica e pelle screpolata, capace di sterzare a destra per poi incanalarsi a sinistra, evitando i paraurti, le persone, i segnali di lavori in corso e i marciapiedi per pochi centimetri.
Un fiume di auto, bus, carretti, biciclette, furgoni, camion, tutti lanciati alla folle velocità di un istante al secondo, fino all’arresto improvviso alla prossima interruzione, al prossimo ingorgo, al prossimo stop.

E se gli Yellow Cab, incontrastati signori di “Sua Maestà La Strada”, sempre in guerra con il mondo, sono i responsabili in parte del muro di suono che mi assale e stordisce, non sono però gli unici.

NY.
Un labirinto di rumori, suoni, gemiti, lamenta e urla. Un’ interminabile e inarrestabile melodia futurista, fatta di trapani sirene e martelli pneumatici, da cui sembra impossibile sfuggire.
Lo stridio di freni arrugginiti, il tossire malato di gole infiammate, le sirene bitonali di pompieri e ambulanze, fanno da contrappunto al rombare basso e robusto del motore diesel di  giganteschi camion, un insieme di suoni, ritmati dai PiiiiPiiii dei camion in retromarcia, amplificati dai canyon della City, prodotti dalle auto che strombazzano continuamente, ignorando i cartelli “NO HONK 1.300 $ at finegenerano assieme un variegato sound urbano che rotola sulle facciate di vetro cemento dei grattacieli  e si rovescia sulle chiacchere delle persone, che camminando spediti e indifferenti, urlano imprecazioni, saluti, rabbia, gioia dentro gli onnipresenti cellulari, cercando di comunicare l’incomunicabile.


"Connecting Whit Peolple"
Mai come a NY questo slogan è vero, sembra di essere in Matrix, una  quantità impressionante d’umanità indossa delle cuffie.

Anche se, camminare per la 5th alle otto di sera, sotto una leggera pioggia, sorseggiando un “caffé Americano medium” di Starbucks, fumando una Camel con “Frank‘s Wild Years” di Tom Waits in cuffia e il rumore di fondo generato dal respiro della Grande Mela, NON HA PREZZO!


Bisogna dire che ovunque ci sono i mitici Starbucks che offrano la connessione gratuita, sicuramente un incentivo per i nativi a rimanere connessi ed una gioia per un genovese come me.
Usufruirne è facilissimo, entri ordini qualcosa ti accomodi, connetti il tuo apparecchio e sei in rete, e poi in parecchi Starbucks ho visto, giuro, degli originali OneManOffice in azione.
Arrivano, prendono possesso del primo angolo libero, ordinano il loro litrozzo di caffeina in variante personalizzata e come internauti autistici si mettono a navigare ignari di ciò che li circonda.
E vi posso assicurare che molte volte sono personaggi veramente curiosi.
Una Sera in uno Starbuck sulla 32th West ero impegnato a cercare di tracciare un itinerario per il giorno dopo, quando vicino a me una tipa asiatica, sulla quarantina, si è sistemata ad un tavolo di fronte ed ha iniziato ad estrarre da una borsa, che mi ricordava quella di Mary Poppins, una quantità incredibile d’oggetti da ufficio.
In rapida successione ha sistemato sul piccolo tavolino rotondo, un portatile da 17 pollici, districato e collegato il cavo alla presa elettrica, dopo essersi gingillata con un complicatissimo lucchetto a 5 combinazioni dal misterioso significato, tirato fuori cinque o sei cartelline di vari colori e dimensioni, numerose matite, una calcolatrice solare, penne, fogli foglietti post-it e un rossetto.
Ora, ignoro l’uso che avrebbe fatto del rossetto, ma vista l’assenza d’evidenziatori, mi sono immaginato la tipa il mattino dopo, presentarsi in ufficio con un bel giallo flue sulle labbra.
Sono rimasto ad osservarla ancora un poco, ammaliato da questo piccolo ufficio portatile che si andava a creare davanti a me, nell’attesa di vedere se estraeva anche una piccola lampada da tavolo cosa che invece non successe.

Ecco alcune varianti spaventose di caffé mattuttino che ho visto prendere da Starbucks:
“Frappuccino” un mix tra frappè e cappuccino dal colore beige plastico e dall’aspetto assai inquietante.
Caffè latte + ghiaccio e inquietante sciroppo mieloso e scuro (melassa?)  shekerati (ore 7.45 am.).
Caffé con aggiunta di uno sciroppo misterioso, pseudo-cioccolato e panna half/half solida formato famiglia.
Base di caffé con aggiunta di vari sciroppi marroni spremuti da ugelli anonimi, miscelata ad acqua calda e spruzzata di scintillanti frammenti di zucchero colorato.
Per concludere, se entrando in uno di questi Starbucks vedete due code, non lasciatevi forviare, una é li per ordinare l’altra per urinare.


Tornando da Washington, un vero viaggio nel viaggio che vi racconterò quanto prima, mi sono trovato, per ragioni misteriose, a scendere intorno a mezzanotte, alla Newark Penn Station, invece che alla Penn Station di Manhattan, mia destinazione finale.
Uscito dalla stazione ho subito capito, con il mio straordinario acume, che non era la stazione giusta, ma bensì in uno sconosciuto retro stazione  di una ben più sconosciuta suburbia metropolitana, dove l’unico essere umano oltre a me era un gentile e poco discreto tossico che appena mi ha visto si è precipitato a chiedermi una sigaretta.
Il tipo, che sembrava uscito da un romanzo di W.Burroughs, aveva una siringa in mano e non me la sono proprio sentita di chiedergli una qualsiasi indicazione, per non fargli capire che ero un povero turista perso, perciò gli ho offerto la siga e mi sono avviato a passo deciso verso l’unico taxi posteggiato.
Il taxista era barricato all’interno del suo mezzo e non era troppo intenzionato a darmi retta, lo capisco visto la zona, ma era la mia unica salvezza perciò dopo aver bussato ripetutamente al finestrino sono riuscito a convincerlo ad abbassarlo cosi da potergli spiegare il mio problema.
Appena ho formulato, con il mio stentato inglese, la mia richiesta di essere accompagnato a destinazione il tipo a subito rifiutato.
Io- Buonasera, al Gershwin Hotel per favore, al 7 east 27th street sulla 5 Avenue, per favore.
Lui- Newark?
Io- No, New York, Manhattan.
Lui- No man, sorry.
Io- per favore ho perso il treno.
Lui- ....e tardi man.
Io- please, ho perso il treno e sono perso a Newark.
Lui- ( dopo averci pensato un po)  ok man.
Io- grazie, grazie, grazie.
Appena salgo, il mio salvatore apre il divisore e con un dito secco dalla lunga unghia, m’indica un cartello scritto a mano dove c’era scritto vietato fumare e che la tariffa era unica per Manhattan.
Gli rispondo che era ok, no problem, i soldi li avevo, rassicurato, ha chiuso il divisorio, si è girato ed è partito a razzo.
Il tipo, un haitiano che abitava  dalle parti del Bronx da 20 anni (almeno cosi mi pare di aver capito) aveva un cruscotto pieno di santini, crocefissi e, parola di boy scout, aveva degli oscuri oggetti dondolanti che mi ricordavano delle piccole teste rinsecchite.
Fatti più o meno un paio di kilometri, ci troviamo in una strada piena di profonde buche,  buia e costeggiata di magazzini abbandonati, quando ad un certo punto rallenta e si accosta al marciapiede.
Per un attimo ho pensato che fosse arrivata la mia ora.
Solo, a mezzanotte e passa, alla merce di una seguace di qualche rito voodoo, in una strada abbandonata del New Jersey, uno sballo.
Invece, il sant’uomo, aveva accostato per evitare le buche e subito dopo, arrivati su una strada più urbana, ha riaperto il divisorio e si è messo a raccontarmi di lui, da dove veniva e a chiedermi da dove venivo io.
Dopo una corsa di circa mezzora, e dopo aver insultato tutti gli autisti di Manhattan, in particolare i colleghi newyorkesi, mi ha chiesto ancora l’indirizzo dell’hotel e mi ha spiegato che era meglio se dicevo Fifthav invece che Fifth Avenue, e che ciò valeva per tutte le Avenue.
Arrivati a destinazione gli ho pagato con piacere la corsa e gli ho lasciato pure una grossa mancia.
Un gran personaggio e che la fortuna lo assista a lungo.

Oggi voglio raccontarvi del giorno che preso da una sprescia (termine genovese per indicare una voglia terribile) decisi di fare una pausa newyorkese e andare a vedere Washington DC.
La Capitale degli Stati Uniti d’America.
WOW!
Mattino ore 8 am. Manhattan é avvolta da nuvole basse e pioggia sottile.
Il programma della giornata é andato a ramengo. Mi metto a pensare ad un’alternativa possibile, mentre mi gusto la non proprio leggera colazione, (uova strapazzate, bacon croccante, pane tostato e caffé in abbondanza) al diner di fronte all’albergo, quando un pensiero mi assale all’improvviso. Oggi si va a Washington DC.
Il tempo di pagare e mi avvio verso la Penn Station, sapevo già che treno prendere, mi metto in coda, in attesa del mio turno.
(Piccola digressione, a NYC ho visto persone in coda cosi disciplinate che gli svizzeri sembrano un branco d’italiani in botta da cocaina in confronto.
Un poliziotto, una volta, ha dovuto far spostare una lunghissima coda, che era nell’attesa di un non meglio omaggio, perché ostruiva il marciapiede, al suo invito, la coda si é spostata compatta di lato, come da sue indicazioni, ma restando una coda con ognuno al suo posto, assolutamente impressionante, davvero).
Quando arriva il mio turno, mi avvicino allo sportello e con il mio inesistente inglese chiedo un biglietto andata e ritorno per la mia destinazione.
La tipa gentilmente mi chiede con che treno volevo tornare e  in che classe volevo viaggiare e io con finta indifferenza le rispondo.
Per un attimo ho pensato di essere posseduto da uno spirito americano, ho capito tutto e sono riuscito a rispondere a modo e tutto ciò in americano.
Assolutamente sorprendente, mi stupisco io stesso di cosa successe quel giorno, ma probabilmente si può archiviare la giornata sotto la voce “ Miracolo”.
Compilato il biglietto, la simpatica impiegata, mi snocciola una cifra così assurda che penso, anzi sono sicuro, di non averla capita bene.
Sorry? Faccio io.
Al che la signorina mi gira lo schermo e i verdi display indicano la cifra che avevo cercato di non capire.
Un viaggio andata e ritorno, in seconda classe, sull’equivalente del nostro IC, tempo di percorrenza tre ore e mezzo circa da NYC a Washington DC, duecentocinquanta dollari (250 $) e per fortuna c’é Mr. Visa.
Davanti a quella rivelazione il mio primo commento é stato un sonoro –SHIT! – seguito a ruota da un debole – sorry- la coda premeva, il tempo pure, la tipa si agitava e lo sbirro iniziava a guardarmi male.
Ok ! ho detto e ho allungato la carta di credito, sorridendo, la tipa ha passato due biglietti e mi ha chiesto di siglarli in alto, e poi, sorridendo, mi ha augurato una buona giornata.
Probabilmente il tempo per me e per lei scorreva in modo diverso, io pensavo di aver trascorso davanti a quello sportello tantissimo tempo e invece erano passati i minuti necessari a fare un normale biglietto.
Misteri della percezione.
Arrivato l’annuncio per l'imbarco, altra coda.
Per entrare al gate bisogna passare il controllo di agenti della polizia, che con tanto di metal detector e cane anti qualcosa, perquisiscono tutti i viaggiatori.
Per fortuna sono veloci e cortesi e in pochi minuti posso salire sul mitico Amtrak train dai vagoni in alluminio.
Mi sento il protagonista di un film americano, un flash tremendo, un’emozione mi seggo a fianco di un nero e partiamo...



Finalmente spaparanzato, su uno dei treni della mitica linea ferroviari  AMTRAK, parto alla volta di Washington.
I treni dell’Amtrak sono un’icona mitica dell’immaginario americano, cosi come la Coca Cola, i Greyhounds, i Mc Donalds, i cow boys, le Mustang, i Diners (con tanto di tipa che ti versa continuamente il caffè).
Viaggio seduto a fianco di un nero dall’età incerta, veste una giacca di jeans consunta e un cappellino con visiera, tra le rughe del suo viso, intravedo la storia di una vita difficile.
Il suo profilo, con dietro immagini di un paesaggio misero e affascinante mi colpisce come mai mi è successo prima, l’I-Pod nelle orecchie suona Tom Waits e mi sento come catapultato dentro una delle sue canzoni, fatte di homless, viaggi e stranezze.
Il capotreno, un nero che, nonostante la sua immensa mole, si muove armoniosamente nello stretto corridoio, sciorinando una nenia, una sorta di blues imbastardito, dove declama le stazioni successive e s’informa sulla destinazione d’ogni passeggero, timbra il biglietto ed inserisce un promemoria in alto, sul portaoggetti, preciso e ripetitivo come un tamburo, a ritmo con lo sferragliare del treno in corsa.
Ho scoperto che il “promemoria “ che inserisce, sfilandolo dal cappello, serve ad indicare il viaggiatore già obliterato e a ricordare, riprendendoselo, la stazione di destinazione d’ogni passeggero.
Intorno a me un film, cercavo d’immaginare la vita dei miei compagni di carrozza.
Il tipo manager, quello alternativo, il piazzista, la segretaria part-time, l’eterno studente, la futura modella, il delinquente in fuga.
Tutta una galleria di personaggi che si mischiavano al mondo immaginifico che mi ero costruito sulle centinaia di pellicole made in USA.
Alla stazione di Pennsylvania il nero salutando, scende, posso così sistemarmi vicino al finestrino, in modo da immergermi meglio, nel monotono, ma non scontato, paesaggio americano.
La tipa che si siede a fianco a me, sulle prime non la considero troppo. Troppo immersa, lei, sul suo portatile e sui suoi documenti. Troppo preso, io, dal paesaggio e dai miei appunti.
Ad un certo punto si volta verso di me, chiudendo il suo portatile, e mi chiede cosa mai stessi facendo.
Mi giro per spiegarglielo, e inizia tra noi una lunga e curiosa conversazione, che durerà più di un’ora, fatta di un misto d’americano, disegno, italiano e mimo e tante risate.
Bisogna sapere che sui treni americani il tono é bassissimo e le risate sguaiate non sono cosa bella.
Io la considero una delle conversazioni più piacevoli e lunghe del mio soggiorno newyorkese.
Jane, professoressa di filosofia all’università di Baltimora ti dico, “thank you, baby!” Grazie a lei ho scoperto gli spaventosi Slum di Baltimora, interi quartieri abbandonati dove abitano gli scarti dell’opulenza occidentale e dove si nasconde una realtà violenta e senza futuro.
Uno schiaffo dopo le abbacinanti luci di Manhattan.













Commenti

  1. Me lo sono divorato con immenso piacere. Ci sono altri pezzi?

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